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Federico Fellini – L’uomo dei sogni

Federico Fellini

24 anni fa ci lasciava Federico Fellini, insuperato e visionario maestro del cinema italiano che ha conquistato il mondo con capolavori quali La Dolce Vita, 8 1/2 e Amarcord. Ripercorriamo la sua storia, la sua poetica e analizziamo le edizioni Blu-ray dei 3 capolavori citati e il documentario Fellini: sono un gran bugiardo

C’è il rischio concreto che l’ultima generazione di appassionati di Cinema faccia scendere l’oblio sull’opera di uno dei fiori all’occhiello della cultura italiana del dopoguerra conosciuto in tutto il mondo, Federico Fellini. La cosa probabilmente non avverrà poiché a tener viva la memoria del regista riminese provvedono in tanti, non solo coloro che si occupano di Cinema, ma prendete la considerazione come una sorta di provocazione.

Ecco il punto, la ‘memoria’, che una realtà tecnologica sempre più avanzata (paradossalmente) spinge verso i margini delle nostre conoscenze, è snodo centrale dell’arte di Fellini. I tempi sono profondamente cambiati, così come il modo di fare Cinema, e ignorare l’importanza di Fellini potrebbe rientrare (anche se non lo condividiamo) nell’ordine delle cose.

Fellini

Per capire meglio, provate a pensare quale enorme cambiamento sia avvenuto nel nostro Paese in cento anni: in questo 2017 diventano maggiorenni gli ultimi nati nello scorso millennio, la classe del ’99, un secolo fa gli allora coetanei dei nostri figli e/o fratelli minori, venivano mandati al fronte a combattere una terribile guerra, la Grande Guerra.


La rimembranza è la chiave di tutta la poetica felliniana e le nuove generazioni dovrebbero comprendere che non c’è futuro senza la consapevolezza del passato. Fellini con il suo Cinema, ma anche con i suoi scritti, i suoi disegni, è sempre andato alla «ricerca del tempo perduto» di proustiano retaggio, trovando nei ricordi, nella memoria, nell’ immaginazione, la fonte più viva d’una ispirazione che lo ha reso celebre in tutto il mondo.

Fellini e Mastroianni

«Riusciva ad esprimere la sua verità sul grande schermo, ritornando senza sosta alla nostalgia della sua infanzia e dell’innocenza perduta, alla sua rappresentazione nevrotica e brillante della donna idealizzata – madre e sposa – e della donna nevrotica, femmina dalle forme mostruose o puttana affamata, di un uomo continuamente spinto alla conquista amorosa che scopre il suo vuoto esistenziale… Il suo stile rigoglioso, delirante, monumentale è stato quello di un poeta che non ha mai smesso di sognare e di rapportarsi con il mondo e con se stesso», così scriveva il quotidiano francese Le Monde all’indomani della morte, avvenuta il 31 ottobre del 1993 per le conseguenze di un ictus che lo aveva colpito tempo prima.

Qualcuno ha accostato il cinema di Fellini a Picasso e Stravinski, tra le componente dell’arte moderna. Federico era un osservatore impareggiabile, una spugna capace di assorbire ciò che lo circondava per poi restituire il tutto attraverso gusto estetico e visionaria genialità. Per lui il cinema, carico di suggestioni, era anche teatro, avanspettacolo, circo, caricatura, ed ovviamente sogno.

Debuttava nel cinema nel 1952 con Lo sceicco bianco (con un allora sconosciuto Alberto Sordi), presentato senza successo al Festival di Venezia, ma nella città lagunare si prendeva una rivincita l’anno successivo con I vitelloni che si aggiudicava il Leone d’Oro, ottenendo un clamoroso successo di critica e di pubblico che proiettava il regista riminese nell’Olimpo del cinema italiano.

Con La strada vinceva nel 1957 un primo Oscar per il Miglior Film Straniero, poi ne sarebbero arrivati altri 4 (per Le notti di Cabiria, 1958, Otto e mezzo, 1964, Amarcord, 1975 ed uno alla Carriera nel 1993, proprio nell’anno della sua morte). Ma, si sa, gli Oscar non sempre danno popolarità duratura, mentre invece La Dolce Vita – statuetta vinta per i Migliori Costumi e solo ‘Nomination’ per Regia e Sceneggiatura Originale nel 1962 – fece conoscere Federico in tutto il mondo così come il suo protagonista, Marcello Mastroianni.

LA DOLCE VITA

Uscito in sala il 5 febbraio 1960, La dolce vita non è solo un film, non è solo uno spaccato agrodolce di un’Italia che (ri)emergeva dalle macerie della guerra e si godeva (o anticipava) il Boom economico, è anche e soprattutto uno ‘stile di vita’ invidiato ed imitato in tutto il mondo. Il film venne presentato al pubblico internazionale nel maggio del ’60 al 13º Festival di Cannes e venne accolto da fischi prolungati ma la lungimiranza della giuria, presieduta dal papà del commissario Maigret, il belga Georges Simenon, gli assegnò la Palma d’Oro (mentre il Premio Speciale della Giuria andò a “L’avventura” di Michelangelo Antonioni).

Marcello – il nome del personaggio protagonista interpretato da Mastroianni – è un giornalista che frequenta gli ambienti mondani di Via Veneto passano con indifferenza da una relazione all’altra – con noncuranza e senza particolari coinvolgimenti emotivi – frequentando salotti altolocati, e l’incontro con una celebre attrice, Sylvie, gli permette di inanellare un’ulteriore esperienza sentimentale… La Dolce Vita è stato un film che ha fatto epoca e la mitica scena del bagno di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi è entrata con prepotenza nell’immaginario collettivo in tutto il mondo.

fellini

Ma andando oltre la popolarità che arrise al film, c’è da sottolineare come in Fellini la narrazione vada progressivamente perdendo il senso di ‘causa ed effetto’ (priva di collegamenti logici) e il realismo delle ambientazioni, facendosi ‘onirica’, e definendo in questo modo lo stile che avrebbe poi accompagnato per sempre l’opera del regista. È l’inizio di quella fase in cui il regista ricostruisce le scenografie nel ‘mitico’ Teatro 5 di Cinecittà, di fatto la sua seconda casa. Si pensi, ad esempio, a come sia stata minuziosamente ricreata via Veneto e come, più in generale, qualsiasi esperienza visiva diventi tout-court parte integrante del gioco dell’illusione del cinematografo.

8 1/2

Nel 1963 arrivava Otto e mezzo (o anche 8 e ½), il capolavoro assoluto di un Fellini onirico e autoriflessivo, di nuovo con Mastroianni protagonista ad impersonare l’alter-ego del regista che, tra le altre cose, si interroga fondamentalmente sul senso della creatività cinematografica, sul possibile fallimento, sulla crisi artistica. Lo stesso titolo sta ad indicare che si trattava dell’ottavo film e mezzo che il grande regista aveva diretto, includendo nella filmografia come ‘mezzo’ la co-regia con Lattuada di Luci del varietà e gli episodi Un’agenzia matrimoniale di L’amore in città (1953) e Le tentazioni del Dottor Antonio presente in Boccaccio ’70 (1962), diretti da più registi. Una cosa analoga ha fatto in tempi più recenti Quentin Tarantino nel titolare il suo ultimo film The Hateful Eight.

Guido è un regista cinematografico in crisi, giunto ai quarant’anni prova a fare un bilancio della sua vita tra momenti reali e altri fantasticati, tra rimembranze e sogni che si sovrappongono senza soluzione di continuità di giorno e di notte. Il padre e la madre, scomparsi ormai da tempo, popolano teneramente i suoi sogni. L’incubo della vecchiaia e della morte lo turba, si sente smarrito e, alle prese con un film che non riesce a portare a termine, fugge da ogni responsabilità sia privata che lavorativa.

Fellini e Mastroianni
Fellini e Mastroianni sul set di 8 1/2

La singolarità dell’opera sta in una narrazione che procede come una seduta di psicoanalisi cui si sottopone il regista per l’interposta persona del protagonista (Mastroianni), con l’inserimento di fantasticherie che vanno a scandire il Tempo in modo anomalo e danno allo spettatore una sensazione di straniamento. “8 e ½” può essere visto – siamo nell’ambito di un vero e proprio ‘Cinema sul Cinema’ – come rappresentazione d’un fallimento artistico che però ha il contraltare sancito invece dalla riuscita dell’opera del regista Federico Fellini. Il film cui Guido sta lavorando funge da paradigma ‘in progress’ per quello di Fellini.

L’angusta condizione in cui è intrappolato Guido, il senso di soffocamento che sta vivendo, vengono introdotti magnificamente dalla scena iniziale dell’incubo, e animano l’intero film, e vengono risolti alla fine dal ‘balletto’ di tutti i personaggi (che hanno ruotato intorno al protagonista) vestiti di bianco che decretano la felice conclusione dell’opera; Guido si è finalmente liberato del suo fardello.

AMARCORD

Nel 1973 Fellini dedicava ai ricordi d’infanzia, al rimpianto, e alla città d’origine, Rimini, uno dei suoi capolavori: Amarcord, in romagnolo «A m’arcord», ‘mi ricordo’, è il film di più immediata lettura, anche se liquidare un qualsiasi film di Fellini come facile è pretestuoso e velleitario, tante e tali solo le implicazioni di ordine artistico e poetico, mnemonico e autoreferenziale, che accompagnano i suoi lavori. Il film gli fece guadagnare il quarto Oscar.

Amarcord

Ambientato tra il 1930 e il 1935 in un immaginario paesino della Romagna, Borgo, scandite dal mutare delle stagioni vi si raccontano le vicissitudini agrodolci della nutrita galleria di personaggi che popolano il luogo; dall’ adolescente Titta e la sua numerosa famiglia, dalla procace parrucchiera, ‘La Gradisca’, sogno proibito degli uomini del paese, alla tabaccaia dai seni enormi, a Volpina, forastica e incontrollabile, dal matto del villaggio al motociclista esibizionista all’avvocato spernacchiato.

Fellini realizza un capolavoro evocativo nel modo in cui, con affetto nostalgico, tratteggia i caratteri (pure vignettistici) di questa variegata e bislacca umanità. Il film, sottovalutato all’ epoca della sua uscita, nel tempo è lievitato nella considerazione generale ed oggi è visto come uno dei più importanti della sua filmografia.

A fare il paio con Amarcord vorrei ricordare pure Roma (1972), l’appassionato omaggio del regista all’amata Città Eterna, dove si era trasferito nel 1939 all’età di diciannove anni con l’intenzione di diventare giornalista e in cui ha sempre vissuto fino alla morte.

Il sodalizio con il compositore Nino Rota

Qualche parola – poche in verità, rispetto a quelle che sarebbero necessarie – voglio spenderla per il rapporto simbiotico che Fellini ha avuto con Nino Rota, autore delle musiche di gran parte dei suoi film (sedici, da Lo sceicco bianco a Prova d’orchestra del 1979, anno della morte del compositore): un’amicizia durata più di 30 anni e un sodalizio cristallizzatosi come uno dei più importanti della storia del cinema tutto. Rota ha donato ai film di Federico musica briosa e drammatica, popolare e suggestiva, sovente con un incalzare grottesco e pregno di umori circensi, sempre velata da una patina di malinconia e di rassegnazione, che si amalgama perfettamente al tratto evocativo e fantasioso, distintivo dell’opera di Fellini.

Documentario e interviste con il regista: Fellini – sono un gran Bugiardo

Fellini – Sono un gran bugiardo [DVD]

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